Saturday, December 31, 2005

the rules of attraction

Cambiando posto semino libri finiti e lasciati andare come zavorre di una mongolfiera. L’economia del peso è più pressante del senso di possesso, manco fossi un’addetta bagagli di una compagnia a basso costo pondero i chili, ascolto le mie stesse lamentele, rilancio sul prezzo. Semino letteratura varia in giro per l’Italia.
Di quello che lascio devo tenere con me qualcosa, questo qualcosa, quello che provo per il libro. Non è quello che ho provato, non è ancora passato, è qui e respira.
Quindi ora caro Bret, è il tuo turno.
Caro Bret perchè non conosco le altre tue atrocità ma già un po’ mi sei caro per queste. Questi corpi nudi nelle loro marche da colletto, che cercano per un minuto e poi si dicono che chi gliela fa fare, questi che non piangono, non piangono mai. Un po’ poi ci ripenso alla storia della morale. Non sai di cosa sto parlando, vero. Parlo di come la tua fama ti ha preceduto in mille letture di quella critica insensata che si studia nei readers, di Ellis sovversivo ma in realtà ragazzo timido che vuole mostrare la crudezza della sua generazione per denunciare, denunciarli tutti. E ancora giù con studi psicologici, cosa gli è successo a Bret, cosa vorrà dire, qual è il suo messaggio. Alla fine ti avevo immaginato senza sapere niente della tua vita privata così, a casa tua, con il giardinetto in ordine, una mamma più ingombrante di quella di Kerouac, che scrivi alla macchina da scrivere – alla macchina da scrivere – magari anche malaticcio ma scrivi, scrivi per fare tutte ste denunce contro quelli che ti hanno fatto male, che si sono approfittati di te, quei giovani d’accatto. Così ti pensavo.
E ora sei arrivato con la tua scritturina col singhiozzo che strizza l’occhio al vecchio E. e mi hai fatto centro al primo colpo come la prima volta che lessi Altri Libertini, solo che qui la gente è ricca e fondamentalmente odiosa, non-amabile. Dev’essere la denuncia, mi dico. Vado avanti e mi innamoro di tutti, li amo e non mi capisco, poi mi dico ma chi me la fa fare e rinuncio a capire e li amo e basta. Prendo a calci l’idea della denuncia e amo fortemente insieme a te questi corpi con le parole intorno. Amo la mezza pagina bianca di Lauren e Dancing with myself (non-si-ride) e la meticolosità della descrizione farmaceutica e il pellegrinaggio per motel in silenzio, sempre più in silenzio, amo Paul che si scopa Sean senza che lui se ne accorga e amo, soprattutto amo, il fatto che in mezzo a urla e feste che troppo mi ricordano mi trovo sbattute in faccia frasi come perchè quando mi guardava capivo, per la prima volta, giusto una sensazione, che era l’unica persona che avessi mai incontrato che non facesse finta di non conoscermi. era la prima persona che guardava e basta.
Non so, in qualche modo il fatto è che il vuoto nello stomaco me lo sono sentito io, xanax o no poco importa, importa partecipare e allora io partecipo alla tempesta, partecipo con tutta me stessa e nemmeno mi ricordavo quanto pesavo veramente, quanto peso posso avere.
E intanto ora ti vedo di nuovo, piccolo, fatto, fatto oggetto di studio da bottegai benvestiti con discreta favella, rigirato da una mano all’altra e frainteso alle feste, per lo più in silenzio, con quegli occhi lì che sei l’insetto o il ragno, sei l’insetto o il ragno. Spalanchi gli occhi e alzi un sopracciglio, alla fine sei proprio tu a chiedermi cosa ne penso. Io però l’ho già detto. Vado a buttare tutti i saggi dalla finestra.
Prima però baciami e finiamola qui, coi pugni in tasca e il sorriso spento.

Sunday, December 25, 2005

To describe a story is to tell a story

American Gods non è il miglior romanzo di Neil Gaiman. Neverwhere esercitava un fascino delicato e infantile, con quel suo intreccio di fogne e mercati sotterranei e quella Londra così classica, proprio come uno se la immagina da piccolo, quando sta lì che pensa che in quella città non c'è mai il sole. Qui invece ci sono gli dei. Un'infinità di dei che si fa fatica a ricordarsi tutti i nomi. Svaniranno presto, barattati per qualcosa di tecnologico, di tintinnante, o semplicemente per un ricambio naturale. Un'infinità di dei, tutti con le loro dipendenze e i loro stracci. Sembrano dei clandestini, sempre a cercare di passare inosservati. Questi dei si buttano dai ponti per disperazione o vivono nel ricordo del passato. Quando uccidono sembra che lo facciano per illudersi di un qualche potere. Se perdono la pazienza però possono improvvisamente ritornare a risplendere di fuoco, a convocare creature magiche e volare sui tuoni. Noi li amiamo, gli dei, in questo libro. Amiamo pure i cattivi, così sempliciotti e arroganti. Li amiamo perchè sono nostalgici e irresistibili e speciali, nel senso più arrogante del termine.
In mezzo a tutto questo c'è Shadow.
Shadow è la causa per cui il libro non funziona come dovrebbe. Le scene senza di lui sono brillanti. Poi compare e gli bastano due risposte per buttare giù il tono della conversazione. Quando è sagace in realtà è pedante, quando protesta si sta lagnando e quando vuole fare il simpatico al massimo strappa un sorriso manco tanto convinto. L'unica cosa che sa fare è giocare con le monete, e almeno quella gli viene bene. Sarebbe stato una bella macchietta ma Gaiman, un po' per ragioni di trama un po' per motivi oscuri, ne ha voluto fare il centro del romanzo. Noi vediamo con gli occhi di Shadow, capiamo quando capisce Shadow (a volte persino dopo di lui) e anche quando è di altri il punto di vista è come se ci fosse sempre lui lì vicino, con l'aria spaurita e i suoi due metri d'altezza. Insomma c'è questo gigante mezzo morto che in fondo non importa a nessuno se gli succede qualcosa di male, se lo picchiano o se si trova in pericolo, in mezzo a questa bolgia di personcine ammodo che è l'olimpo degli dei internazionali.
Ovvio che tutti diventano protagonisti del romanzo, tutti meno Shadow.
Altrettanto ovvio che questo era stato cercato e preparato, e che fin dal nome il suo destino era stato deciso. Si capisce che lui è così perchè è così che deve essere, perchè sennò tutta la struttura del libro sparirebbe come una moneta in una mano veloce abbastanza. Si capisce, però non è sufficiente. Rimane sempre un po' di nervo teso alla base del collo per tener su la guardia, per mettersi al riparo in fretta se il libro si dovesse rivelare inaccettabile e ci sono due o tre lunghe scene in cui il suddetto nervo è messo davvero alla prova.
Di sicuro da godersi il paesaggio, con ogni scintilla di immaginazione. Quello non lascia spazio a polemiche inutili. E' per quello, e per la mitologia, che questo libro è stato pensato. Tutto qui è una grande dichiarazione d'amore all'America, anche quando non vuole. Qui ci troviamo il parco giochi con la giostra, il turista col cappellino, gli indiani traffichini, le pompe funebri di periferia, le storie dei pionieri, quelli veri che sputavano la vita su un pezzo di terra, e le storie degli schiavi, quelli che perdevano i polmoni dormendo sotto le stelle. Non è un omaggio ma un racconto dell'omaggio, di quei racconti fatti in un bar da motel davanti a quel caffè lungo che emana un odore disgustoso ma che forse, quasi quasi, ci viene voglia di dargli un'altra chance.
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