Sunday, December 25, 2005

To describe a story is to tell a story

American Gods non è il miglior romanzo di Neil Gaiman. Neverwhere esercitava un fascino delicato e infantile, con quel suo intreccio di fogne e mercati sotterranei e quella Londra così classica, proprio come uno se la immagina da piccolo, quando sta lì che pensa che in quella città non c'è mai il sole. Qui invece ci sono gli dei. Un'infinità di dei che si fa fatica a ricordarsi tutti i nomi. Svaniranno presto, barattati per qualcosa di tecnologico, di tintinnante, o semplicemente per un ricambio naturale. Un'infinità di dei, tutti con le loro dipendenze e i loro stracci. Sembrano dei clandestini, sempre a cercare di passare inosservati. Questi dei si buttano dai ponti per disperazione o vivono nel ricordo del passato. Quando uccidono sembra che lo facciano per illudersi di un qualche potere. Se perdono la pazienza però possono improvvisamente ritornare a risplendere di fuoco, a convocare creature magiche e volare sui tuoni. Noi li amiamo, gli dei, in questo libro. Amiamo pure i cattivi, così sempliciotti e arroganti. Li amiamo perchè sono nostalgici e irresistibili e speciali, nel senso più arrogante del termine.
In mezzo a tutto questo c'è Shadow.
Shadow è la causa per cui il libro non funziona come dovrebbe. Le scene senza di lui sono brillanti. Poi compare e gli bastano due risposte per buttare giù il tono della conversazione. Quando è sagace in realtà è pedante, quando protesta si sta lagnando e quando vuole fare il simpatico al massimo strappa un sorriso manco tanto convinto. L'unica cosa che sa fare è giocare con le monete, e almeno quella gli viene bene. Sarebbe stato una bella macchietta ma Gaiman, un po' per ragioni di trama un po' per motivi oscuri, ne ha voluto fare il centro del romanzo. Noi vediamo con gli occhi di Shadow, capiamo quando capisce Shadow (a volte persino dopo di lui) e anche quando è di altri il punto di vista è come se ci fosse sempre lui lì vicino, con l'aria spaurita e i suoi due metri d'altezza. Insomma c'è questo gigante mezzo morto che in fondo non importa a nessuno se gli succede qualcosa di male, se lo picchiano o se si trova in pericolo, in mezzo a questa bolgia di personcine ammodo che è l'olimpo degli dei internazionali.
Ovvio che tutti diventano protagonisti del romanzo, tutti meno Shadow.
Altrettanto ovvio che questo era stato cercato e preparato, e che fin dal nome il suo destino era stato deciso. Si capisce che lui è così perchè è così che deve essere, perchè sennò tutta la struttura del libro sparirebbe come una moneta in una mano veloce abbastanza. Si capisce, però non è sufficiente. Rimane sempre un po' di nervo teso alla base del collo per tener su la guardia, per mettersi al riparo in fretta se il libro si dovesse rivelare inaccettabile e ci sono due o tre lunghe scene in cui il suddetto nervo è messo davvero alla prova.
Di sicuro da godersi il paesaggio, con ogni scintilla di immaginazione. Quello non lascia spazio a polemiche inutili. E' per quello, e per la mitologia, che questo libro è stato pensato. Tutto qui è una grande dichiarazione d'amore all'America, anche quando non vuole. Qui ci troviamo il parco giochi con la giostra, il turista col cappellino, gli indiani traffichini, le pompe funebri di periferia, le storie dei pionieri, quelli veri che sputavano la vita su un pezzo di terra, e le storie degli schiavi, quelli che perdevano i polmoni dormendo sotto le stelle. Non è un omaggio ma un racconto dell'omaggio, di quei racconti fatti in un bar da motel davanti a quel caffè lungo che emana un odore disgustoso ma che forse, quasi quasi, ci viene voglia di dargli un'altra chance.

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